sabato 1 novembre 2014

Intervista a Tina Bialetti (ottobre 2013 - 2014)


Tutto ciò che racconto in questa intervista sono piccoli frammenti di storia di Alfonso, mio padre, creatore della Moka Express Bialetti e di suo figlio Renato, mio fratello, che la commercializzò su vasta scala.
Ho acconsentito a parlarne perché conosco la sua passione per le macchine da caffè che per lei non solo oggetti ma documenti muti di storie che non sempre è dato conoscere.


D.   Lessiveuse? Che relazione ha con la Moka Express?
R.  La ”lessiveuse” è un grande mastello con un camino centrale forato. In questo recipiente si metteva l’acqua, la cenere e il sapone. Negli anni trenta era usato per fare il bucato. Sotto la lessiveuse veniva acceso il fuoco alimentato dalla legna. L’acqua in ebollizione saliva lungo il camino forato e scendeva a pioggia sui panni che erano in ammollo.


Alfonso osservando a lungo il funzionamento della “lessiveuse” mentre Ada, la mia mamma, faceva il bucato nel prato, ideò e realizzò quella macchinetta che cambiò il sistema di fare il caffè. 


La mamma mi raccontava che era infastidita dalla presenza del marito che su una seggiola impagliata o su un muretto tracciava quelli che lei chiamava scarabocchi. Spesso in piena notte, Alfonso si svegliava e si recava nella piccola officina ad applicare la sua tecnica agli scarabocchi.

D.   In che anno Alfonso Bialetti cominciò a produrre la caffettiera?
R.  Nel 1933. In principio Alfonso regalò caffettiere al vicinato per testarne il funzionamento, felice dei consensi perché la creazione di un unico oggetto, in questo caso si può dire “rivoluzionario”, era il sogno che inseguiva da tempo.


D.   Da allora ha subito modifiche come si può vedere.
R.  Certamente. Venne applicata la valvola di sicurezza, il manico e il pomolo in bachelite e non più di legno, il coperchio incernierato e modificata la forma.





D.   Alfonso Bialetti, suo padre nacque nel 1888, nel 1933 realizzò la caffettiera. Negli anni precedenti di che cosa si occupò?
R.  Ebbe una vita piuttosto tribolata. Da ragazzino nella buona stagione seguì suo padre Luigi, ambulane di timbri a fuoco, nelle piazze del Friuli, Alto Adige, Germania, Francia. Poi lavorò come “bocia” (garzone) nelle piccole officine della zona del Cusio.
Più o meno nel 1910, emigrò in Francia dove imparò il sistema della fusione in conchiglia ancora non in uso in Italia dove si fondeva ancora nello stampo di terra che non poteva più essere riutilizzato. 


Le conchiglie o stampi in ghisa invece, costruite e fresate a mano, si potevano riutilizzare per riprodurre lo stesso oggetto in più copie.


A Parigi prese moglie ed ebbe un figlio. Nel 1917 Rientrò in Italia con la sua famiglia. A Torino lavorò alla FIAT dove si occupò di pezzi meccanici.


 La moglie francese e il figlioletto morirono poco tempo dopo il rientro in Italia.
Alfonso lasciò Torino e con un prestito avuto da suo padre Luigi nel 1918 comprò un terreno sul quale avviò una piccola officina a sant’Anna di Crusinallo dove si mise a produrre pezzi meccanici per vari clienti.
Gli affari andavano bene, l’officina si era ingrandita, Alfonso aveva alle dipendenze una trentina di operai con i quali aveva stabilito rapporti di amicizia, di stima e di fiducia condizioni per lui indispensabili per la collaborazione.
Era in condizione di ricostruirsi una famiglia e nel ’21 sposò Ada, dalla quale ebbe i primi due figli: Renato e Germana. 


Tutto andava bene fino a quando… tra i clienti che gli commissionavano i vari pezzi meccanici, Galloni di Borgomanero ebbe l’idea di realizzare una piccola motocicletta coinvolgendo Alfonso che ne fu entusiasta tanto che rifiutò qualsiasi altro ordine e sospese ogni diversa produzione che non fosse carter, pistoni e  altri pezzi meccanici per quella che doveva essere la “Motocicletta del popolo”.


Alfonso lavorò solo per quell’unico cliente e questo fu un grande errore. La Mototecnica Galloni fallì trascinando nel suo fallimento l’officina di papà che si era esposto anche personalmente facendosi garante presso la banca per l’incauto imprenditore. 


Per pagare dipendenti, fornitori e banca, per non portare i libri in tribunale, nel 1928 vendette l’officina a Giovanni Alessi del quale divenne poi consuocero poiché mia sorella Germana nel 1945 sposò Carlo il primo dei suoi tre figli. Oggi quell’officina è diventata un grande modernissimo e funzionale stabilimento sede dell’Alessi S.p.A. di Crusinallo.


Gli anni seguenti furono durissimi. Alfonso trasferì la famiglia in Ossola dove lavorò da meccanico specializzato, come dipendente, nella metallurgica dei suoi fratelli. In Ossola la famiglia aumentò: nacque mia sorella Luisanna.
Il desiderio di creare qualcosa di unicamente suo prevalse e Alfonso nel 1932 tornò al paesello. Affittò una piccolissima officina, sempre a Sant’Anna di Crusinallo dove progettò e realizzò quella caffettiera che dopo la guerra sarebbe diventata la Moka Express Bialetti.


D.    Perché il nome Moka Express?
R.   Moka è una varietà di caffè che si coltiva nello Yemen. La leggenda narra che caprette e cammelli dopo aver mangiato quelle bacche acquistassero vigore. 


Mio fratello Renato negli anni cinquanta diede questo nome alla caffettiera perché nel suo immaginario pensava che il caffè scaturito dalla macchinetta di suo padre Alfonso desse slancio agli Italiani per la ricostruzione post-bellica. Express perché con quella caffettiera si otteneva un caffè espresso fatto in casa.



D.   Come nacque il logo “l’Omino coi baffi”?
R.   Lo si deve a un pubblicista, Paul Campani che tracciò la caricatura di Renato: un piccolo omone coi baffi. Mio fratello fin da ragazzo lavorò in officina perché la scuola era per lui una prigione. Durante le lezioni si distraeva spesso, guardava dalla finestra e invocava la “divina libertà” col disappunto degli insegnanti. Fuggì dal collegio Rosmini di Domodossola saltando il muro di cinta.


Il sogno della nonna materna che voleva Renato notaio, come il bisnonno, svanì e Renato cominciò a lavorare in officina. In quel periodo la mamma compilava fatture, teneva la contabilità, inscatolava e inchiodava casse di caffettiere per le spedizioni. Rimproverava ad Alfonso, che firmava la quietanza sulle fatture di chi diceva di essere al momento in difficoltà, il totale disinteresse per il denaro. “Caspita! Abbiamo tre figli da crescere!” pensava Ada. Io non c’ero ancora.
Papà in risposta le cantava l’aria della Tosca.
“Vissi d’arte, vissi d’amore e non feci mai male ad anima viva”



D.  Come nacque il successo della Moka Express?
R.  Si deve la diffusione della macchinetta per il caffè a mio fratello Renato che già durante il servizio militare a Torino rivelò il suo pallino per gli affari.
Era l’attendente di un capitano e tra le altre mansioni doveva lucidargli gli stivali e fare la spesa. La moglie del capitano lo mandava al mercato per risparmiare. Ma… il mercato era molto lontano. Mio fratello comprava allora nei negozi del centro e integrava il maggior prezzo con i soldi inviati da papà.
Vien da pensare che fosse pigro e indolente?
Niente affatto.
Impiegava il tempo risparmiato visitando i vari negozi di articoli casalinghi per procurare ordini di caffettiere.
Renato è sempre stato un tipo fantasioso e un giorno raccontò al capitano e a sua moglie che suo padre era titolare di una fabbrica di casalinghi, sul lago d’Orta, in vendita nel miglior negozio della città. La signora lo pregò di accompagnarla per fare acquisti.  Si era cacciato proprio in un bel guaio!
Non so come convinse il negoziante a spacciare come Bialetti i diversi prodotti che la moglie del capitano acquistò addirittura con uno sconto che Renato restituì in caffettiere.
Da quel giorno il giovane Bialetti non lustrò più gli stivali del capitano. Aveva anche introdotto la caffettiera in uno dei migliori negozi di casalinghi di Torino. Le caffettiere-sconto furono apprezzate dai clienti tanto che quel commerciante fece anche un ottimo ordine di quell’unico prodotto Bialetti.
La naia a Torino fu quasi piacevole ma… l’8 settembre a Mantova, dove si trovava con il suo battaglione, Renato fu caricato su un treno per ignota destinazione.
 


Durante la guerra la produzione della caffettiera fu sospesa e Alfonso addirittura seppellì gli stampi del “suo tesoro” per timore che gli fossero sottratti. Avrebbe potuto costruire pezzi bellici come altri fecero ma non era uomo da frequentare gli ambienti giusti per tali commesse.

Alla fine del ’45 del tutto inaspettato Renato tornò dopo due anni di prigionia nei campi tedeschi durante i quali la famiglia non ebbe alcuna notizia. Indescrivibile la meravigliosa sorpresa, la gioia e l’accoglienza dei familiari e degli amici. Tutta quella baraonda svegliò un esserino di pochi mesi che cominciò a strillare.
Anche Renato ebbe una sorpresa: una nuovissima sorellina.
Ora il mio fratellone ha novantadue anni, ci sono poche settimane di differenza tra noi, solo quelle contenute in ventitré anni. Devo dire che mi accolse con gioia. Se fossi stata un maschietto forse meno.
 


D.  La pubblicità è l’anima del commercio, si diceva.
R.  Verissimo. L’officina riprese la produzione della caffettiera che Renato volle far conoscere attraverso la geniale intuizione del potere della pubblicità. Fece tappezzare interamente di manifesti il Corso Sempione di Milano, partecipò alla Fiera di Milano con un vero stand. Ricordo la gigantesca caffettiera posta all’esterno dalla quale usciva zampillando un finto caffè.


Era ormai finito il tempo della bancarella carica di caffettiere alla quale, prima della guerra, si avvicinavano i due soli rappresentanti a fare ordini stratosferici, ma fasulli, per attirare l’attenzione di eventuali compratori.



Per allargare il mercato all’estero, nei primi anni ’50 Renato diede appuntamento a due rappresentanti francesi all’Hotel de Paris di Montecarlo.


Arrivò in treno con pochi soldi in tasca ma con tante speranze. Al bar dell’hotel vide l’armatore greco Onassis che stava uscendo. Lo seguì nella hall e in nome della comune umile origine gli chiese di rientrare e di salutarlo per ben impressionare i francesi. Onassis non diede alcun segno di assenso ma di lì a poco rientrò, si avvicinò al tavolo, gli diede una pacca amichevole sulla spalla dicendogli: “Hallò Bialetti”. 
 


Tutto bene, ma il meglio è che Renato gli rispose quasi distrattamente: “Ciao Arì, ci vediamo dopo, adesso sto lavorando!”
E il mercato francese così fu conquistato.


D.  Lo stabilimento Alfonso Bialetti & C. di Crusinallo era noto come “La fabbrica di caffettiere più grande del mondo”.
R.  E’ vero. Grazie alla pubblicità le vendite aumentarono e la fabbrichetta nei primi anni sessanta si trasformò nel grande bianco edificio tutto vetri fornito di molti servizi e docce per gli operai. 
 


Renato era convinto che il luogo di lavoro dovesse essere dotato di quei “comfort” che a quei tempi nelle fabbriche erano trascurati. Certamente la grande fabbrica fu realizzata da competenti ma Renato diede precise indicazioni per quello che fu un esempio di architettura industriale veramente d’avanguardia.
Ora quella fabbrica non c’è più.

            
Tutto ciò in corso d’opera richiedeva parecchio denaro. Renato invitava a cena direttori di banca per ottenere fidejussioni e Alfonso, uomo reso prudente dalle tristi esperienze passate, temeva il disastro. 
 


Nei momenti più duri la ditta rischiò moltissimo, anche Renato trascorse notti insonni e agitate nel tentativo di risolvere i problemi finanziari. Ci furono tra padre e figlio divergenze di opinioni ma Renato ebbe la meglio e fu così che la Moka Express esplose poi con Carosello ed ebbe successo. 
 


Fiorì la concorrenza. Caffettiere simili invasero il mercato. Renato allora mise in vendita la stessa identica caffettiera senza l’Omino coi baffi a un prezzo inferiore ma la Moka con il logo mantenne la maggior quota di vendite.
Ah! Il potere della griffe e della pubblicità!


D. Renato Bialetti, a detta di chi lo ha conosciuto in quegli anni, era un tipo stravagante e burlone. Mi racconta qualche episodio divertente che lo riguarda?
R.  Un giorno una garbata anziana signora si presentò in portineria e chiese di vedere Renato che la ricevette nel suo ufficio. La signora gli consegnò un libretto di assegni che aveva trovato per strada. Renato la ringraziò e le regalò una caffettiera. 


La signora era già sulla porta, tornò indietro e, poiché aveva visto sulle madri degli assegni cifre ingenti a Sant’Antonio, si complimentò per la sua generosità. In realtà gli assegni erano intestati al ristorante Sant’Antonio di Gravellona Toce dove Renato consumava lauti pasti trascorrendo allegre serate con gli amici; non smentì e lasciò che la pia signora se ne andasse piena di ammirazione per lui. Bella faccia tosta!


Renato ha sempre avuto la passione per le belle auto. Desiderava avere una Mercedes Sport, quella le cui portiere si aprivano sollevandosi lateralmente come ali. 
 


Si recò alla concessionaria Mercedes di Milano per acquistarla. Era vestito come d’abitudine, indossava la casacca grigia con bottoni fino al colletto rigido, abbigliamento alla Stalin. Infatti sia per la stazza che per i baffoni i due si somigliavano. Anche questa era una forma di pubblicità. Il venditore illustrò le caratteristiche dell’auto, Renato si informò del prezzo e dei tempi di consegna. L’acquisto era per lui già concluso quando il solerte venditore gli chiese chi fossero i suoi “signori”. Renato precisò che era “lui” i suoi signori. Il venditore lo aveva scambiato per l’autista di chissà quale ricca famiglia milanese. Renato non acquistò la Mercedes ma una Rolls Roys non sportiva ma molto prestigiosa.


D    Negli anni dalla contestazione ci furono parecchi scioperi
R.  Non ho memoria delle agitazioni alla Bialetti. Ricordo però che mi trovai in mezzo ai manifestanti che protestavano davanti alla Metallurgica Vittorio Cobianchi di Omegna. In auto con me c’erano due dei tre bambini di Renato. Riportati i nipotini a casa, ne sentii da lui di tutti i colori. 
 


Disse che gli scioperanti avrebbero potuto rovesciare la Flavia Coupè e chissà cos’altro. Niente di tutto ciò. A finestrino abbassato avevo ringraziato le persone che tranquillamente aprirono la strada perché potessi passare. L’idea di quel pericolo non mi aveva neppure sfiorato così come pure  papà non ebbe mai timore di agitazioni sindacali. In quegli anni aveva ceduto il timone della ditta a Renato del quale non poteva che essere orgoglioso.
 


 Spesso tornava a Crusinallo in fabbrica a salutare i dipendenti, a osservare i più recenti macchinari poi al bar Moderno a giocare a biliardo con gli amici.




D.   Mi sembra di capire che padre e figlio erano molto diversi.
R.   Certamente, papà non considerò mai prioritari denaro e successo, era un artigiano che inseguiva un sogno che realizzò con la Moka Express che non avrebbe raggiunto tanta notorietà se mio fratello non fosse stato un abile uomo d’affari. Alfonso e Renato furono davvero complementari.



2 commenti:

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