Ringrazio Mauro per la gradita sorpresa:
una foto inaspettata!
Ma avrei potuto pubblicarla così senza renderla fruibile a tutti?
No.
E quindi buona lettura: i più attenti comunque scopriranno piccole incongruenze con quanto già conosciuto.
Due dati estremamente interessanti:
- la data di creazione della moka (dichiarata in quell'anno) era il 1935 (e potrei finalmente crederci..)
- 70.000 moke prima serie prodotte in dieci anni (ho già commentato queste cifre fantasiose)
Consiglio caldamente la visione del sito di Mauro e se per caso passate da Kiel, visitate la sua mostra dedicata alle caffettiere.
BIALETTI ha scoperto il tesoro in una caffettiera
Ricordo che quando andavo a scuola e mi cadeva la matita, c'era sempre un compagno di banco pronto a raccattarla. Allora non capivo perché, l'ho capito più tardi. Ci sono individui nati per comandare agli altri: senza che lo chiedano, forse per virtù del magnetismo che sprigionano, trovano sempre qualcuno che si china a raccattare la matita per loro. Nel corso della mia vita, questa storia della matita si è ripetuta spesso. » Con queste parole, Renato Bialetti
spiega la sua riuscita di « re della caffettiera »: era predestinato, è nato con lo scettro in mano. Bialetti
è alto un metro e ottantaquattro, ha una zazzera sale e pepe che gli ricopre le orecchie, un paio di baffoni alla mugico
, la faccia che quando ride gli si solca di rughe, gli occhi maliziosi
e il nasone da gaudente. Nell'aspetto, nel modo di vestire, negli atteggiamenti estrosi, si rivela come un anticonformista e un ribelle. Il lavoro lo inchioda nel suo stabilimento, ma la tentazione di evadere da quella prigione di vetro, alla scoperta di gente nuova e di cose nuove, lo rende irrequieto e scontento.
spiega la sua riuscita di « re della caffettiera »: era predestinato, è nato con lo scettro in mano. Bialetti
è alto un metro e ottantaquattro, ha una zazzera sale e pepe che gli ricopre le orecchie, un paio di baffoni alla mugico
, la faccia che quando ride gli si solca di rughe, gli occhi maliziosi
e il nasone da gaudente. Nell'aspetto, nel modo di vestire, negli atteggiamenti estrosi, si rivela come un anticonformista e un ribelle. Il lavoro lo inchioda nel suo stabilimento, ma la tentazione di evadere da quella prigione di vetro, alla scoperta di gente nuova e di cose nuove, lo rende irrequieto e scontento.
Gratta gratta, sotto la scorza dell'industriale c'è il beatnik. Non per niente suo nonno era un mercante girovago. Quando ha organizzato la sua azienda con criteri d'avanguardia, Bialetti
sperava di piazzare nei posti direttivi alcuni funzionari e di abbandonare nelle loro mani tutte le responsabilità. Così avrebbe potuto andarsene a zonzo, a soddisfare la gran smania di libertà che gli serpeggia addosso. « Ma dopo avere organizzato tutto », dice, « ho capito che senza di me niente avrebbe potuto funzionare. Ed
eccomi qui, chiuso in trappola. » Ogni tanto, però, lo zingaro ha il sopravvento sul capitano d'industria. Allora, al volante di una delle sue poderose automobili (ha due Rolls
Royce, una Bentley, una Maseratie una Ferrari), si dà alla fuga e viaggia a velocità
pazzesca senza meta: qualche volta si ferma in una modesta osteria di campagna a bere un bicchiere di buon barbera, qualche
altra lascia la macchina in un aeroporto, sale su un jet e va a farsi il bagno alle Bahamas. Bialetti
è nato quarantaquattro anni fa a Casale Corte Cerro, in provincia di Novara, a un chilometro e mezzo da Omegna, dove ora sorge il suo stabilimento, una costruzione dí
sbalorditiva modernità, trasparente, fatta di alluminio e cristallo.
l'unico maschio di quattro figli. Suo padre, Alfonso, che sta per compiere ottant'anni, ha fatto l'operaio fonditore e poi l'artigiano, padrone a Omegna dí
una piccola fonderia dove si costruivano pistoni di automobile, carters
di motociclette e altri pezzi meccanici. È stato lui a « inventare » nel 1935 la famosa Moka-Ex-press. Ma il lancio industriale di questo arnese, che è una ingegnosa variante della tradizionale caffettiera napoletana, è merito del figlio ed è avvenuto nel dopoguerra, dopo discussioni e litigi familiari interminabili.
"Mio padre", dice Renato Bialetti, " era un artista". Lavorava per la gloria, non per il guadagno. A diciott'anni, emigrato a Parigi, aveva imparato l'arte della fonditura in conchiglia, allora sconosciuta ín Italia. Era bravissimo, ma non sapeva badare ai suoi interessi. La sua più grande soddisfazione, la sera, andandosene a letto
, era di addormentarsi col sigaro in bocca, stringendo in mano uno dei pezzi "difficili" usciti dalla fonderia. Io ero un ragazzo, ma capivo già che le ambizioni artistiche non danno la ricchezza a chi non
ha la mentalità dell'uomo d'affari. Lo dicevo a papà, lui andava sulle furie, la discussione si inveleniva e io mi vedevo volare addosso martelli e tenaglie.
Ma Renato Bialetti era nato per comandare e per imporsi anche al padre. Di studiare non gli andava. A scuola, durante le lezioni, il suo sguardo era costantemente rivolto oltre la finestra, verso il fondo valle. Al di là del quale c'era il mondo, pieno di tentazioni. Un giorno, stanco della scuola e dei libri, decise di piantarla lì e suo padre fu costretto a prenderlo con sé in bottega. Vi furono altri litigi, volarono altre tenaglie, lime e martelli. Alfonso Bialetti avrebbe voluto che suo figlio seguisse il suo esempio e se ne stesse tutto il giorno a lavorare al tornio o al forno. Invece Renato preferiva occuparsi della parte commerciale: scrivere e telefonare ai fornitori e ai clienti, spedire le fatture, contrattare l'acquisto dei materiali, fare la contabilità, tener d'occhio le scadenze delle cambiali e badare agli incassi. Per mio padre , racconta, queste operazioni erano inutile burocrazia. Io gli davo delle rispostacce, lui mi scagliava gli attrezzi addosso, e allora infilavo
la porta e per tre o quattro giorni non mi facevo vedere a casa. Andavo vagabondando lungo il lago o su per la montagna, a mangiare e a bere con gli amici. Però capivo che nella bottega dí
papà c'era la mia fortuna, che il lavoro si sarebbe potuto sviluppare, che con un po' di organizzazione e dí senso degli affari si sarebbero potute fare grandi cose. Tornavo in bottega, cercavo di convincere mio padre, ricominciavano le discussioni e i bisticci e ío
di nuovo filavo via. Così ho tirato avanti fino al servizio militare. Renato Bialetti, chiamato alle armi nel 1942, fu assegnato al reparto ordinanze della scuola di guerra dí
Torino, come palafreniere addetto ai cavalli degli ufficiali. Era al sicuro, non sarebbe andato al fronte, però il lavoro di brusca e striglia non
lo entusiasmava. Si diede da fare in fureria, ottenne l'incarico di attendente e andò a lavare piatti in casa di un capitano. Neppure lavare piatti era un'incombenza attraente. Allora Bialetti diede a intendere alla moglie dell'ufficiale di essere figlio díun industriale, futuro erede di un'officina con 500 operai. Da quel momento, i piatti li lavò la signora. Questa vita beata cambiò bruscamente l'8 settembre 1943. Bialetti, catturato dai tedeschi, si ritrovò in un vagone piombato diretto in Germania. Trascorse sei mesi in un campo di concentramento della Prussia
Orientale, poi fu spedito in un campodi lavoro a Tilsitt, in Lituania, a raccogliere patate e barbabietole. In seguito, fu inviato a imbullonare traversine lungo le linee ferroviarie, ma convinse í
suoi guardiani a dargli un incarico più confortevole e venne assegnato a un lavoro d'ufficio, in una stazione ferroviaria. A questo punto , dice Bialetti, cominciai a far carriera. Conquistai le simpatie del capostazione, e gli chiesi un permesso per andare a fare compere in città. Andai a fare una visitina nel lager dei prigionieri angloamericani, strinsi subito amicizia e ne uscíí rimpinzato di sigarette, caffè e cioccolato. Allora pensai di barattare questi generi di conforto coi tedeschi. In cambio di un pacchetto di sigarette o di una stecca di cioccolato, chiesi
tre filoni di pane. Poi tornai dagli angloamericani a contrattare l'affare inverso: in cambio di un filone di pane, tre pacchetti di sigarette o tre stecche di cioccolato. Ormai avevo trovato il modo di lanciarmi nell'attività commerciale. Bialetti regalò al capostazione caffè e cioccolato e ottenne così altri permessi. Questo gli diede modo di prendere contatto anche coi prigionieri russi che lavoravano nei magazzini di vestiario. Cedendo loro pane, sigarette, caffè e cioccolato, ebbe in cambio scarpe, stivali e altri indumenti. Con questa merce, si recò in una fabbrica di zucchero dove lavoravano gli italiani e si fece dare zucchero
, che cedette ai civili lituani in cambio di 'un abito e di un cappotto. Rivestito a nuovo da capo a piedi
, acquistò l'aspetto di un personaggio autorevole. Persino il comandante del lager, dove andava a dormire ogni notte, cominciò a trattarlo con riguardo. Avevo capito il trucco per farmi rispettare , dice Bialetti, e da quel giorno ho avuto mano libera per i miei piccoli traffici fino alla fine della guerra. Renato Bialetti, rientrato in Italia, riprese il lavoro nella piccola officina paterna. E di nuovo, tra padre e figlio, ricominciarono le discussioni e i litigi. Ma io ero più uomo, l'esperienza fatta in Germania mi aveva temprato e papà non aveva più tanta forza di opporsi ai miei progetti. La spuntai e mio padre si convinse che avremmo potuto far fortuna costruendo un solo prodotto: la nostra caffettiera. In dieci anni, ne avevamo vendute 70 mila. Io volevo venderne milioni ». A bordo di una Millecento, il reduce dei lager tedeschi fece il suo primo giro di affari in Piemonte e in Lombardia, portando con sé la futura moglie, Elisa. « La sua caffettiera è una porcheria », gli dicevano i negozianti. « Lei la provi », rispondeva lui, e poi mi saprà dire ». Alla fine del 1946, Renato Bialetti aveva venduto 12mila caffettiere. L'anno dopo ne vendette 36
mila. Nel 1948, le vendite salirono a 100 mila pezzi. "Ormai ero sicuro di tenere in pugno il successo. Allora decisi di farmi prestare un milione, in parte dalle banche, in parte
dai fornitori, e con quei soldi comperai la baracca dove mio padre aveva impiantato l'officina." Liberati dal peso dell'affitto e padroni del terreno, avremmo potuto sviluppare gli impianti, aumentare la produzione e in un secondo tempo incrementare le vendite. Occorreva creare una rete di distribuzione, disseminando rappresentanti in tutta Italia. Così ho fatto », dice Bialetti, e eil resto è venuto da sé ». Da sette operai, quanti ne impiegava nel 1946, la fonderia Bialetti passò a cinquanta, poi a cento, poi a duecento e così via. La vecchia baracca di Alfonso Bialettisi gonfiò. Cominciò l'avanzata travolgente delle Moka-Express. Martellanti campagne pubblicitarie, con slogans e bozzetti ideati da Renato Bialetti
, vennero lanciate sui giornali, alla radio, infine alla televisione. Da 100 milioni, il budget pubblicitario dell'officina Bialetti salì via via a 400, portando una valanga dì lavoro. Per far fronte alle richieste non bastavano più le vecchie attrezzature artigianali. Occorreva costruire di sana pianta uno stabilimento. I miei amici, racconta Renato Bialetti
, mi dicevano che ero matto e che avrei fatto meglio a comperarmi la villa al mare. Ma io sapevo che lo stabilimento era una necessità. Indebitandomi sino ai capelli, ho iniziato la costruzione. Fatti i pilastri e le solette, mi sono accorto di essermi indebitato troppo. Allora mi sono fermato per un anno e mezzo, concedendomi un respiro per pagare almeno in parte i debiti. Poi, alleggerito, ho ripreso i lavori. Quando lo stabilimento ha cominciato a funzionare, ho fatto i conti e ho visto che i debiti erano saliti a un miliardo o giù di lì. E allora, cosa lavoro a fare?, mi sono detto. Ero scoraggiato, quasi quasi stavo per dar ragione a papà. Ma ormai non c'era altro rimedio: se volevo pagare i debiti dovevo fabbricare a tutta birra caffettiere, e vendere, vendere, vendere, senza fermarmi mai. E
questa è ora la mia condanna . Al ritmo di due caffettiere al secondo, lo stabilimento Bialetti, che è un portento di automazione, scaraventa ogni anno sul mercato 4 milioni di caffettiere. Il 75
per cento delle caffettiere vendute in Italia sono Moka-Express. Preso nella inesorabile spirale che lo condanna a fabbricare e a vendere, Bialetti ha costruito nel 1958 un secondo stabilimento e ha
iniziato la produzione dì piccoli elettrodomestici: macina caffè, aspirapolvere, tritacarne, tostapane, bistecchiere, lucidatrici, da affiancare al poderoso esercito delle caffettiere. Anche questo stabilimento, come quello che fabbrica la Moka-Express, è un modello di architettura industriale. a
Il luogo dove l'uomo lavora », dice Bialetti, a dev'essere allegro e confortevole, perché è qui che egli trascorre la maggior parte della sua vita. Perciò ho voluto che i miei stabilimenti fossero tali da rendere gioioso il lavoro. Sono un idealista. Mi sono sbagliato. Non avrei dovuto dimenticare che il lavoro è un castigo e non
un premio. Quando avevo cinque anni, mi si disse che l'uomo non campa in eterno
e la cosa mi fece grande impressione. Ora il pensiero che la vita finisce mi impressiona di meno, perché capisco quale grosso castigo sarebbe per me fabbricare in eterno caffettiere. Io non sono un patito del lavoro. Nella vita ho sempre fatto quel che mi sembrava più facile fare. Il difficile l'ho sempre scartato. Eppure faccio fatica lo stesso. Bialetti rimpiange il tempo in cui era ragazzo e dalla finestra di scuola, mentre il maestro spiegavala lezione, egli guardava il fondo valle, al di là del quale immaginava un mondo meraviglioso, pieno di sorprese e di incanti. Ora è ricco, ha viaggiato, ha potuto scoprire il mondo, ma la gioia che, quand'era il figlio di un artigiano, gli davano le gite in bicicletta, ora
non la prova più. Sognavo la libertà , dice, ed ecco cosa ho ottenuto tentando di conquistarla: sto tutto il giorno in ufficio e alla sera, quando me ne vado a casa, mi ritrovo in poltrona, come un rimbambito, a sognare la libertà.
sperava di piazzare nei posti direttivi alcuni funzionari e di abbandonare nelle loro mani tutte le responsabilità. Così avrebbe potuto andarsene a zonzo, a soddisfare la gran smania di libertà che gli serpeggia addosso. « Ma dopo avere organizzato tutto », dice, « ho capito che senza di me niente avrebbe potuto funzionare. Ed
eccomi qui, chiuso in trappola. » Ogni tanto, però, lo zingaro ha il sopravvento sul capitano d'industria. Allora, al volante di una delle sue poderose automobili (ha due Rolls
Royce, una Bentley, una Maseratie una Ferrari), si dà alla fuga e viaggia a velocità
pazzesca senza meta: qualche volta si ferma in una modesta osteria di campagna a bere un bicchiere di buon barbera, qualche
altra lascia la macchina in un aeroporto, sale su un jet e va a farsi il bagno alle Bahamas. Bialetti
è nato quarantaquattro anni fa a Casale Corte Cerro, in provincia di Novara, a un chilometro e mezzo da Omegna, dove ora sorge il suo stabilimento, una costruzione dí
sbalorditiva modernità, trasparente, fatta di alluminio e cristallo.
l'unico maschio di quattro figli. Suo padre, Alfonso, che sta per compiere ottant'anni, ha fatto l'operaio fonditore e poi l'artigiano, padrone a Omegna dí
una piccola fonderia dove si costruivano pistoni di automobile, carters
di motociclette e altri pezzi meccanici. È stato lui a « inventare » nel 1935 la famosa Moka-Ex-press. Ma il lancio industriale di questo arnese, che è una ingegnosa variante della tradizionale caffettiera napoletana, è merito del figlio ed è avvenuto nel dopoguerra, dopo discussioni e litigi familiari interminabili.
"Mio padre", dice Renato Bialetti, " era un artista". Lavorava per la gloria, non per il guadagno. A diciott'anni, emigrato a Parigi, aveva imparato l'arte della fonditura in conchiglia, allora sconosciuta ín Italia. Era bravissimo, ma non sapeva badare ai suoi interessi. La sua più grande soddisfazione, la sera, andandosene a letto
, era di addormentarsi col sigaro in bocca, stringendo in mano uno dei pezzi "difficili" usciti dalla fonderia. Io ero un ragazzo, ma capivo già che le ambizioni artistiche non danno la ricchezza a chi non
ha la mentalità dell'uomo d'affari. Lo dicevo a papà, lui andava sulle furie, la discussione si inveleniva e io mi vedevo volare addosso martelli e tenaglie.
Ma Renato Bialetti era nato per comandare e per imporsi anche al padre. Di studiare non gli andava. A scuola, durante le lezioni, il suo sguardo era costantemente rivolto oltre la finestra, verso il fondo valle. Al di là del quale c'era il mondo, pieno di tentazioni. Un giorno, stanco della scuola e dei libri, decise di piantarla lì e suo padre fu costretto a prenderlo con sé in bottega. Vi furono altri litigi, volarono altre tenaglie, lime e martelli. Alfonso Bialetti avrebbe voluto che suo figlio seguisse il suo esempio e se ne stesse tutto il giorno a lavorare al tornio o al forno. Invece Renato preferiva occuparsi della parte commerciale: scrivere e telefonare ai fornitori e ai clienti, spedire le fatture, contrattare l'acquisto dei materiali, fare la contabilità, tener d'occhio le scadenze delle cambiali e badare agli incassi. Per mio padre , racconta, queste operazioni erano inutile burocrazia. Io gli davo delle rispostacce, lui mi scagliava gli attrezzi addosso, e allora infilavo
la porta e per tre o quattro giorni non mi facevo vedere a casa. Andavo vagabondando lungo il lago o su per la montagna, a mangiare e a bere con gli amici. Però capivo che nella bottega dí
papà c'era la mia fortuna, che il lavoro si sarebbe potuto sviluppare, che con un po' di organizzazione e dí senso degli affari si sarebbero potute fare grandi cose. Tornavo in bottega, cercavo di convincere mio padre, ricominciavano le discussioni e i bisticci e ío
di nuovo filavo via. Così ho tirato avanti fino al servizio militare. Renato Bialetti, chiamato alle armi nel 1942, fu assegnato al reparto ordinanze della scuola di guerra dí
Torino, come palafreniere addetto ai cavalli degli ufficiali. Era al sicuro, non sarebbe andato al fronte, però il lavoro di brusca e striglia non
lo entusiasmava. Si diede da fare in fureria, ottenne l'incarico di attendente e andò a lavare piatti in casa di un capitano. Neppure lavare piatti era un'incombenza attraente. Allora Bialetti diede a intendere alla moglie dell'ufficiale di essere figlio díun industriale, futuro erede di un'officina con 500 operai. Da quel momento, i piatti li lavò la signora. Questa vita beata cambiò bruscamente l'8 settembre 1943. Bialetti, catturato dai tedeschi, si ritrovò in un vagone piombato diretto in Germania. Trascorse sei mesi in un campo di concentramento della Prussia
Orientale, poi fu spedito in un campodi lavoro a Tilsitt, in Lituania, a raccogliere patate e barbabietole. In seguito, fu inviato a imbullonare traversine lungo le linee ferroviarie, ma convinse í
suoi guardiani a dargli un incarico più confortevole e venne assegnato a un lavoro d'ufficio, in una stazione ferroviaria. A questo punto , dice Bialetti, cominciai a far carriera. Conquistai le simpatie del capostazione, e gli chiesi un permesso per andare a fare compere in città. Andai a fare una visitina nel lager dei prigionieri angloamericani, strinsi subito amicizia e ne uscíí rimpinzato di sigarette, caffè e cioccolato. Allora pensai di barattare questi generi di conforto coi tedeschi. In cambio di un pacchetto di sigarette o di una stecca di cioccolato, chiesi
tre filoni di pane. Poi tornai dagli angloamericani a contrattare l'affare inverso: in cambio di un filone di pane, tre pacchetti di sigarette o tre stecche di cioccolato. Ormai avevo trovato il modo di lanciarmi nell'attività commerciale. Bialetti regalò al capostazione caffè e cioccolato e ottenne così altri permessi. Questo gli diede modo di prendere contatto anche coi prigionieri russi che lavoravano nei magazzini di vestiario. Cedendo loro pane, sigarette, caffè e cioccolato, ebbe in cambio scarpe, stivali e altri indumenti. Con questa merce, si recò in una fabbrica di zucchero dove lavoravano gli italiani e si fece dare zucchero
, che cedette ai civili lituani in cambio di 'un abito e di un cappotto. Rivestito a nuovo da capo a piedi
, acquistò l'aspetto di un personaggio autorevole. Persino il comandante del lager, dove andava a dormire ogni notte, cominciò a trattarlo con riguardo. Avevo capito il trucco per farmi rispettare , dice Bialetti, e da quel giorno ho avuto mano libera per i miei piccoli traffici fino alla fine della guerra. Renato Bialetti, rientrato in Italia, riprese il lavoro nella piccola officina paterna. E di nuovo, tra padre e figlio, ricominciarono le discussioni e i litigi. Ma io ero più uomo, l'esperienza fatta in Germania mi aveva temprato e papà non aveva più tanta forza di opporsi ai miei progetti. La spuntai e mio padre si convinse che avremmo potuto far fortuna costruendo un solo prodotto: la nostra caffettiera. In dieci anni, ne avevamo vendute 70 mila. Io volevo venderne milioni ». A bordo di una Millecento, il reduce dei lager tedeschi fece il suo primo giro di affari in Piemonte e in Lombardia, portando con sé la futura moglie, Elisa. « La sua caffettiera è una porcheria », gli dicevano i negozianti. « Lei la provi », rispondeva lui, e poi mi saprà dire ». Alla fine del 1946, Renato Bialetti aveva venduto 12mila caffettiere. L'anno dopo ne vendette 36
mila. Nel 1948, le vendite salirono a 100 mila pezzi. "Ormai ero sicuro di tenere in pugno il successo. Allora decisi di farmi prestare un milione, in parte dalle banche, in parte
dai fornitori, e con quei soldi comperai la baracca dove mio padre aveva impiantato l'officina." Liberati dal peso dell'affitto e padroni del terreno, avremmo potuto sviluppare gli impianti, aumentare la produzione e in un secondo tempo incrementare le vendite. Occorreva creare una rete di distribuzione, disseminando rappresentanti in tutta Italia. Così ho fatto », dice Bialetti, e eil resto è venuto da sé ». Da sette operai, quanti ne impiegava nel 1946, la fonderia Bialetti passò a cinquanta, poi a cento, poi a duecento e così via. La vecchia baracca di Alfonso Bialettisi gonfiò. Cominciò l'avanzata travolgente delle Moka-Express. Martellanti campagne pubblicitarie, con slogans e bozzetti ideati da Renato Bialetti
, vennero lanciate sui giornali, alla radio, infine alla televisione. Da 100 milioni, il budget pubblicitario dell'officina Bialetti salì via via a 400, portando una valanga dì lavoro. Per far fronte alle richieste non bastavano più le vecchie attrezzature artigianali. Occorreva costruire di sana pianta uno stabilimento. I miei amici, racconta Renato Bialetti
, mi dicevano che ero matto e che avrei fatto meglio a comperarmi la villa al mare. Ma io sapevo che lo stabilimento era una necessità. Indebitandomi sino ai capelli, ho iniziato la costruzione. Fatti i pilastri e le solette, mi sono accorto di essermi indebitato troppo. Allora mi sono fermato per un anno e mezzo, concedendomi un respiro per pagare almeno in parte i debiti. Poi, alleggerito, ho ripreso i lavori. Quando lo stabilimento ha cominciato a funzionare, ho fatto i conti e ho visto che i debiti erano saliti a un miliardo o giù di lì. E allora, cosa lavoro a fare?, mi sono detto. Ero scoraggiato, quasi quasi stavo per dar ragione a papà. Ma ormai non c'era altro rimedio: se volevo pagare i debiti dovevo fabbricare a tutta birra caffettiere, e vendere, vendere, vendere, senza fermarmi mai. E
questa è ora la mia condanna . Al ritmo di due caffettiere al secondo, lo stabilimento Bialetti, che è un portento di automazione, scaraventa ogni anno sul mercato 4 milioni di caffettiere. Il 75
per cento delle caffettiere vendute in Italia sono Moka-Express. Preso nella inesorabile spirale che lo condanna a fabbricare e a vendere, Bialetti ha costruito nel 1958 un secondo stabilimento e ha
iniziato la produzione dì piccoli elettrodomestici: macina caffè, aspirapolvere, tritacarne, tostapane, bistecchiere, lucidatrici, da affiancare al poderoso esercito delle caffettiere. Anche questo stabilimento, come quello che fabbrica la Moka-Express, è un modello di architettura industriale. a
Il luogo dove l'uomo lavora », dice Bialetti, a dev'essere allegro e confortevole, perché è qui che egli trascorre la maggior parte della sua vita. Perciò ho voluto che i miei stabilimenti fossero tali da rendere gioioso il lavoro. Sono un idealista. Mi sono sbagliato. Non avrei dovuto dimenticare che il lavoro è un castigo e non
un premio. Quando avevo cinque anni, mi si disse che l'uomo non campa in eterno
e la cosa mi fece grande impressione. Ora il pensiero che la vita finisce mi impressiona di meno, perché capisco quale grosso castigo sarebbe per me fabbricare in eterno caffettiere. Io non sono un patito del lavoro. Nella vita ho sempre fatto quel che mi sembrava più facile fare. Il difficile l'ho sempre scartato. Eppure faccio fatica lo stesso. Bialetti rimpiange il tempo in cui era ragazzo e dalla finestra di scuola, mentre il maestro spiegavala lezione, egli guardava il fondo valle, al di là del quale immaginava un mondo meraviglioso, pieno di sorprese e di incanti. Ora è ricco, ha viaggiato, ha potuto scoprire il mondo, ma la gioia che, quand'era il figlio di un artigiano, gli davano le gite in bicicletta, ora
non la prova più. Sognavo la libertà , dice, ed ecco cosa ho ottenuto tentando di conquistarla: sto tutto il giorno in ufficio e alla sera, quando me ne vado a casa, mi ritrovo in poltrona, come un rimbambito, a sognare la libertà.
Giacomo Maugeri
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